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Più smart working per rilanciare il retail

Come aumentare i margini con azioni a breve

Gli impatti del COVID sul mondo del retail in Italia sono risultati ben più gravi delle aspettative iniziali di chiunque. Ad eccezione del food, negli altri settori l’impatto su frequenze e fatturato è stato drammatico. In totale, il calo del fatturato medio dei negozi del 43% nel primo semestre è, purtroppo, solo la punta di un iceberg: sulla base di recenti ricerche effettuate da Confcommercio e da Confimprese i prezzi medi rilevati presentano una diminuzione di circa il 7%; il magazzino invenduto in pancia ai retailer è aumentato del 31% rispetto all’anno precedente, arrivando ad un valore impressionante stimato in circa 30 miliardi di euro; l’indebitamento medio delle aziende è anch’esso cresciuto proporzionalmente (+18%), per arrivare ad un valore di circa 42 miliardi di euro. Numeri che, solo dal punto di vista analitico, fanno pensare ad un settore che vedrà una crisi strutturale, già annunciata dai concordati in bianco aperti in tribunale da alcune importanti realtà del settore negli ultimi mesi. La via di uscita non è ovvia.

Il percorso di ridisegno dei canali e dei processi di vendita è già in atto: le boutique del lusso stanno amplificando il clienteling, per rafforzare il legame con la propria clientela, i retailer da prezzo puntano invece sull’on-line, il food potenzia l’home-delivery e i servizi di rifornimento automatico. Ma queste azioni, di natura tattica, devono essere supportate da un totale ridisegno del modello operativo dell’azienda che, di per sé, risulta essere fisico in quanto materiali sono i beni venduti e consegnati al cliente finale. Come rivedere quindi la creazione del prodotto, la supply chain, la logistica, la gestione operativa dei negozi, in un contesto in cui diminuiscono margini e fedeltà del consumatore, e in cui la differenziazione non può più avvenire unicamente con il livello di servizio in-store offerto al cliente?

Lezioni dalle banche

Un importante parallelismo storico può essere fatto con il settore bancario quando, nel periodo tra il 2000-2005, il traffico medio all’interno delle filiali è diminuito di quasi il 25%, la competizione è cresciuta esponenzialmente - aumentando la trasparenza e limando lo spread sui tassi applicati ai consumatori finali e abilitando una facile “trasportabilità” dei prodotti finanziari da una banca a un’altra - e la relazione di prossimità instaurata in anni dal cassiere e dal direttore è venuta a mancare. Le banche hanno reagito in maniera strutturale: ripensando il ruolo della filiale da operativa a relazionale; creando delle figure nuove di contatto con la clientela che non fossero di servizio, ma di vendita; limando ed efficientando i processi, per garantire una riduzione complessiva dei costi e, quindi, un’offerta più accattivante ai propri clienti; e garantendo un’esperienza multicanale sempre più dinamica. In poche parole, le banche si sono trovate costrette a cambiare il proprio modello operativo, cambiando anche a volte il modo di lavorare e i luoghi in cui le persone lavoravano, dalla filiale alle strutture centrali.

Ad oggi il retail è chiamato strutturalmente a fare lo stesso, cercando di recuperare costi ed efficienza su tutti i propri processi, per poi riuscire a girare parte di questa efficienza su quelli ad alto valore aggiunto, che hanno un forte impatto sui clienti. Alcune leve erano state già attivate negli anni: logistica tesa ed efficientata; product management industriale per riuscire a garantire una economicità generale dei prodotti venduti sulla rete; gestione del negozio volta ad aumentare le rotazioni e l’economia generale degli spazi. Sono rimaste fuori le persone: viste finora solo come un costo nei conti economici, possono in realtà essere gestite in maniera ottimale e più produttiva attraverso lo smart working, ambendo ad ottenere efficientamenti importanti - anche fino al 10-15% del costo  complessivo aziendale (rilevazione campionaria effettuata da Mercer su un campione di 100 retailer nel mondo).

Un nuovo manuale del lavoro

Come garantire quindi uno smart working ottimale, che porti a queste efficienze? Sicuramente riscrivendo il manuale di lavoro del retail: una revisione strategica del modello, e non un tatticismo basato su aggiustamenti operativi.

Smart working non è e non può essere spiegato ai dipendenti come “svolgere n giorni di attività a settimana presso una sede di lavoro domestica”, ma deve essere concepito in maniera più strutturale, individuando intere fasi di processo gestibili integralmente da remoto. Iniziando dalle sedi centrali, per fare un esempio concreto: le attività di gestione amministrativa in una azienda commerciale possono assorbire fino anche al 15% della forza lavoro complessiva di sede; una volta ripensati i processi sottostanti e le tecnologie di supporto, queste attività sono quasi integralmente gestibili in smart working – e non con gli uno o due giorni alla settimana che abitualmente venivano offerti dalle aziende ai loro dipendenti ante COVID. E come questo esempio possono esservene altri, con impatti sul business rilevanti: la pianificazione operativa nei negozi, il merchandising operativo, la gestione commerciale delle terze parti, la gestione di partnership. Ma anche le attività nel negozio possono vedere, parzialmente, una gestione nuova del tempo degli addetti: le attività amministrative di negozio (e.g. controllo merce, riconciliazioni amministrative, …) possono essere remotizzate, e per gestire il tempo “morto” del personale di vendita causato dal calo del traffico nei negozi si può pensare a soluzioni di “personal shopping” e di “shopper virtuale”.

Insomma: occorre riscrivere il manuale del lavoro del retailer, ripensando a ruoli, responsabilità e processi. Stimiamo che circa il 30% delle attività complessive di un retailer può essere gestito attraverso lo smart working, consentendo quindi di ritrovare marginalità per un 10-15% dei costi totali del personale, che a loro volta incidono circa un 20% dei costi totali: calcoli alla mano, lo smart working vale quindi per un retailer circa dal 3% al 5% di margine complessivo.

Tecnologia, ma non solo

Queste opportunità vanno supportate con specifici investimenti che non necessariamente devono essere disruptive e fortemente innovativi. Prima dell’arrivo del COVID, che di fatto ha fortemente accelerato gli investimenti in tecnologia, solo il 40% dei retailer italiani aveva investito in tecnologie per la collaborazione diffusa tra tutti i dipendenti (per esempio, cloud platform, strumenti di videoconferenza …), solo il 35% del personale di sede era dotato di un PC portatile, solo il 12% poteva usufruire di un collegamento internet da remoto. Investimenti semplici, molto concreti e pratici, che fungono da abilitatori generali al nuovo modello di lavoro.

Al tempo stesso bisogna impostare in maniera organica il nuovo modello di lavoro per riuscire a negoziarlo efficacemente con le parti sociali, fortemente coinvolte in questa fase storica in cui molti contratti collettivi vanno a scadenza e le normative cambiano costantemente. Con la decadenza del divieto di licenziamento e il termine dello stato di emergenza, che consente alle aziende un uso massivo del lavoro da remoto, le parti sociali avranno un ruolo chiave nel far comprendere appieno la necessità del ripensamento del modo di lavorare delle aziende del retail e saranno co-responsabili della sua adozione nel settore.

Importante sarà anche il ruolo del Governo in questa importante evoluzione, sia sotto forma di contributi finanziari per supportare la trasformazione tecnologica delle imprese, sia sotto forma di legislazione che dovrà abilitare a livello strutturale, e non a livello eccezionale, questa nuova modalità di lavoro pienamente nobilitante e in linea con l’evoluzione della società.

Il momento di farlo è ora, ancora impattati dai rossi in bilancio provocati dal COVID, ma aiutati da un contesto storico che ci obbliga a ripensare a fondo il modo in cui le persone del retail dovranno lavorare in futuro. Sarà un giovamento per le aziende del settore, ma anche per i lavoratori, in grado di conciliare meglio lavoro e vita personale, e per la collettività in genere, che potrà riscoprire una nuove dimensione cittadina meno ingolfata dal traffico e più a disposizione del bene comune.